ERAVAMO IN PLURICLASSE
Eravamo in pluriclasse. Io in quinta. Con i nostri grembiuli neri, i colletti bianchi e grandi fiocchi rosa o celesti.
Era un paese di campagna, molti arrivavano a piedi dopo aver fatto un bel pezzo di strada, ma da soli. I genitori si alzavano presto per andare nei campi e dovevano cavarsela da soli.
Li riconoscevi per le scarpe sporche e il fiocco storto, che il maestro aggiustava quando entravano in classe.
Il maestro. Il Mio Maestro, lo chiamavo. Uomo autorevole e giusto.
Per me il mio maestro era La Scuola. Amavo La Scuola. Al mattino correvo a #Scuola. A casa raccontavo di continuo della Scuola.
Il fatto di essere in pluriclasse comportava un’organizzazione particolare. Il maestro doveva darci compiti diversificati e quando un bambino più grande aveva finito il suo, lo faceva affiancare ad uno più piccolo per aiutarlo. Nei banchi eravamo seduti misti, due a due, di classi diverse.
Ci osservava continuamente. Controllava i nostri quaderni e ci diceva “rispettateli, che ci mettete dentro quello che avete nella testa, la cosa più importante che avete”.
Non dava punizioni. Quando sbagliavamo, semplicemente ce lo faceva rifare. L’unica cosa che non tollerava era che si parlasse in dialetto in classe. Se succedeva, urlava, diventava paonazzo.
Era un ammiratore di Mazzini, gli piaceva la poesia e gli piacevamo noi. Lo sapevamo, lo capivamo. Perciò anche lui ci piaceva.
Le assenze erano rarissime. Non so se non ci ammalavamo mai o andavamo a scuola anche se non stavamo bene. E di lui non ricordo in cinque anni che qualche volta non sia venuto.
Accadde che un compagno disertasse, un giorno.
Abitava in campagna e tutte le mattine si faceva qualche chilometro per arrivare a scuola. D’inverno si avvolgeva in una cappa scura e portava degli stivaloni più grandi di lui, del tipo con cui si va a pesca. Il suo fiocco era sempre storto.
“Perché ieri non sei venuto?” Gli chiese il maestro l’indomani. Silenzio.
“Dovevi venire accompagnato oggi. Perché ieri non sei venuto?” insisteva.
Il bambino, se ne stava muto, in piedi dietro al suo banco, testa bassa. Noi eravamo tutti girati verso di lui e pensavamo “perché non risponde?”.
Più il maestro insisteva, più lui abbassava la testa e taceva, più noi ci stringevamo emotivamente al nostro compagno in difficoltà e avremmo voluto dirgli di rispondere perché soffrivamo, perché il maestro stava alzando la voce e cosa ci voleva a dirglielo!
E proprio quando lui si stava alzando dalla cattedra, rosso come non mai, il compagno, sempre cogli occhi al pavimento, mormorò “ so jiut a ppasce”.
La risento nella mia testa ogni volta che ci penso, questa frase.
Il pathos era alle stelle. Immaginavamo una reazione terribile.
Invece il maestro disse “ Antonietta, leggi a pagina 37”.
Il compagno che il giorno prima era andato a pascolare le pecore e si vergognava di dirlo, aveva rialzato il viso e si era seduto. L’aveva detto in dialetto, rivendicando una necessità inderogabile, a tal punto che non avevano potuto neanche accompagnarlo per la giustificazione.
Il maestro, passando tra i banchi, gli mise la mano sulla testa come a benedirlo.
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